Racconti brevi per l'estate
SENSI DI COLPA
di Mauro Angelo Gallotti
Nell’elenco dei rischi, Giacomo non aveva considerato quello di rimanere bloccato nella bussola blindata, e adesso non sapeva che fare, consapevole che gli rimanevano solo pochissimi minuti per tirarsi fuori da quella bruttissima situazione prima che arrivassero le forze dell’ordine. Quella specie di sarcofago stretto e trasparente, che conteneva al massimo una persona per volta, generava una claustrofobica disperazione che rappresentava non tanto il sintomo di un disagio contingente, quanto la raffigurazione del fallimento di un’intera vita. Stefano se li era trovati davanti senza accorgersi del loro ingresso nella filiale, preso com’era dal servire i clienti in coda. Stava contando le banconote comprese in un versamento, quando un uomo mascherato si era avvicinato al suo sportello. «Butta tutti i soldi qui dentro» gli intimò, nervosissimo, puntandogli una pistola contro. Certamente una scacciacani, visto che il metal detector era rimasto silente, ma non era intenzione di Stefano verificarlo con atti di eroismo non richiesti e inappropriati. I rapinatori erano quattro, e indossavano larghe e anonime tute da lavoro blu e calzamaglie scure che lasciavano liberi solo gli occhi. Uno di essi si era fermato all’ingresso, a controllare la situazione e a dirigere il traffico dei clienti entrati dopo di loro, e gli altri tre si stavano occupando delle casse. Non era un buon periodo per Stefano. Suo padre aveva perso il lavoro, e i genitori faticavano a tirare avanti, così si vedeva costretto a mantenerli. I suoi non erano dei fannulloni, e tentavano in tutti i modi di darsi da fare, ma non era facile riciclarsi alla loro età, e faticavano a trovare persino piccoli e saltuari impieghi negli incarichi più umili. Poiché la cosa andava avanti da diversi mesi, la moglie di Stefano cominciava a dare segnali di impazienza e a rimproverarlo per l’eccessiva generosità, accrescendo i motivi di tensione che già non mancavano tra loro, e spingendola a un insopportabile comportamento rancoroso. Dopo aver razziato il denaro disponibile i rapinatori, uno alla volta, uscirono utilizzando l’apposita bussola. I primi tre scivolarono fuori tranquillamente, ma quando fu la volta del quarto a Stefano venne un colpo di genio. Veloce come un centometrista ai blocchi di partenza, si fiondò verso la scrivania alle sue spalle e comandò il blocco delle porte, imprigionando all’interno della cabina antieffrazione il malcapitato ladro. Giacomo adesso sapeva esattamente come si sente un topo in trappola. Iniziò a spingere, a tirare, a colpire il vetro curvo della parete rotante, senza ottenere alcun risultato. Urlò, imprecò, bestemmiò, mentre i suoi complici se la davano a gambe col bottino. Dopo qualche minuto, col suono delle sirene sempre più vicino, Giacomo tentò un ultimo disperato assalto a spallate, per accasciarsi a terra e scoppiare in un pianto irrefrenabile quando i carabinieri giunsero sul posto. Stefano aprì la porta esterna della bussola, e i militari sollevarono Giacomo e gli infilarono le manette. Curiosamente l’uomo poneva resistenza non all’arresto, ma al tentativo di togliergli la calzamaglia. Impiegati e clienti, ancora pallidi per la paura e il pericolo scampato, circondarono il gruppetto. Giacomo smise di dimenarsi, e uno dei militari riuscì a scoprirgli il viso. Stefano non credeva ai propri occhi. «Papà!» esclamò. Giacomo piegò la testa, in preda alla più grande umiliazione di tutta la sua vita. «Scusami. Ho solo tentato di raddrizzare le cose» disse. «Scusami tu, papà» fece eco Stefano che, senza aggiungere altro, tornò alla sua scrivania.
LA FOLLIA
di Mauro Angelo Gallotti
La porta blindata è ben chiusa, ma la controllo più volte, e alla fine infilo persino un piccolo quadro tra la piastra di ancoraggio e l’impugnatura della maniglia.
Lo faccio ogni sera. Se qualcuno tentasse di entrare farebbe cadere il vetro che, frantumandosi, mi sveglierebbe.
La paura mi impedisce di tracciare un confine chiaro tra la razionalità e l’ossessione compulsiva. Lo so, esagero, ma non posso farci niente. Sono quello che sono, e forse non ho neppure tutti i torti.
L’appartamento è grande, e ispezionarlo tutto prima di coricarmi è una fatica che richiede un notevole dispendio di energie emotive. Col tempo ho elaborato strategie e metodi che rasentano la perfezione.
Vivo al quinto piano, non ci sono balconi o terrazzini, e neppure tubi di scarico su cui potersi arrampicare, ma per ulteriore sicurezza tutte le finestre sono allarmate. Basta appoggiare la mano che parte una sirena in grado di far sobbalzare non solo i vicini, ma addirittura l’intero quartiere. È già successo una volta, anni fa, quando un corvaccio, forse disorientato dalla nebbia o dagli impulsi delle antenne del 5G, si è schiantato contro il vetro della cucina.
Sono certa che si trattasse di un corvo perché casualmente ero proprio lì in quel momento a osservare, nella foschia, i contorni incerti del mondo circostante.
Mi sono spaventata tantissimo e, a occhio e croce, per lui è stato peggio. Sono certa di aver visto il terrore nel suo sguardo quando in pieno volo si è trovato a mezzo metro dalla mia faccia. La differenza è che io ero dentro, blindata e al sicuro, lui ha perso i sensi quando ha sbattuto, per poi avvitarsi e sfracellarsi al suolo.
Dopo aver sistemato la porta d’ingresso passo al controllo dei locali.
Facile con la cucina e il salone, dove non ci sono angoli abbastanza larghi e bui da nascondere un uomo in agguato, neppure uno molto piccolo, neppure un nano.
Nel bagno mi inquieta l’idea di controllare dentro la doccia, e anche la camera degli ospiti presenta qualche criticità, nello spazio buio tra i due letti. Lo ritengo altamente improbabile, ma non si può escludere una presenza acquattata in attesa che tutte le luci si spengano. Ultimo da ispezionare è lo studio e, come tutte le sere, dopo aver controllato sotto e dietro la scrivania, lo sguardo cade sulla sacca da golf.
«Allora, vieni a letto o no?»
La sua voce è una punta di trapano nel cervello. Lo odio. Sono stanca di lui, di tutti questi anni in cui... lasciamo perdere, rivangare non serve a nulla, tranne che a peggiorare il mio stato d’animo già insopportabilmente fragile. La sua domanda, apparentemente innocente, è la goccia che fa traboccare il vaso.
«Arrivo» dico.
Tra le mazze mi sono decisa per il putt. È più corto e maneggevole rispetto agli altri ferri. Il grip è cicciotto, agevole da impugnare e la testa un concentrato pesante di alluminio. Immagino che l’impatto con il cranio di un essere umano, se il colpo viene portato con la giusta dose di forza, non lasci scampo. Sento già un crac come quello di un’anguria colpita da un martello, e mi piace l’idea.
Entro in camera, lui è sul letto, sta leggendo, sento la sua indifferenza, è palpabile.
Speravo in tutta un’altra vita, fatta di passione, senza indifferenza. È successo giusto il contrario, niente passione e tanta indifferenza.
«Il male non è prerogativa di persone da tenere fuori dalla nostra casa» penso mentre alzo il ferro sopra la testa e carico il colpo. Lui mi fissa, ha uno sguardo che mi ricorda quello del corvo. Disorientato e terrorizzato. Sorrido. «Cosa combini?» mi chiede, ma non ha il tempo per altre domande.
@@@@@
L’ATTORE
di Mauro Angelo Gallotti
Quattro braccia nerborute lo afferrarono per le braccia e lo trascinarono di peso mettendolo a sedere sulla più sgangherata delle seggiole di legno sistemate attorno al tavolo.
«Tira fuori la roba» intimò il più aggressivo dei tre assalitori.
«Quale roba?» «E bravo il nostro Lamberto. Negare, negare sempre. Forse ha in mente un piano» aggiunse l’uomo con un’ironia venata di violenza; non vedeva l’ora di colpirlo per farlo parlare.
«Quale piano? Non ho nessun piano, e non ce n’è più di roba. Prendete i soldi che ho in tasca» insistette Lamberto, sperando chissà come di convincerli.
In quel momento il secondo delinquente arrivò trionfante dalla camera da letto, sventolando un panetto di cocaina sigillato sotto vuoto che, visto da lontano, somigliava curiosamente a un sacchetto di riso.
«Ho trovato tutto. Altro che piano. Questo idiota non è stato abba stanza sveglio neppure per nasconderla meglio. E adesso?» domandò a quello che doveva essere il capo.
Senza neppure rispondere quest’ultimo estrasse un coltello a serramanico con una lama di quindici centimetri e lo affondò nel cuore di Lamberto.
Questo era il momento che Lamberto proprio non sopportava. Dopo dodici rappresentazioni della commedia non si era ancora abituato all’idea che l’altro attore brandisse un vero serramanico a pochi centimetri dalla sua faccia e, alla fine della scena, simulasse di infilarglielo nel torace.
Lamberto aveva chiesto più volte al regista di utilizzare finti coltelli, magari di plastica, di quelli che a carnevale e ad Halloween spopolano nelle vetrine delle cartolerie, ma lui non ne voleva sapere.
«Dobbiamo essere il più realistici possibile» gli ripeteva. «Ti pare il caso di andare in scena con dei coltelli da cucina di plastica? Siamo dilettanti, ma non pagliacci.»
Non che Lamberto non si fidasse dei suoi partner, ma insomma, un incidente poteva sempre capitare.
Solo quando il sipario si chiuse e scrosciarono gli applausi si rilassò completamente. Anche questa sera era andata bene, e il calore del pubblico rendeva meno amaro il sapore del fallimento. Perché quello era, un fallito.
Con la moglie scappata con un altro e le figlie che non volevano più saperne di lui, aveva puntato tutto sulla carriera, mai decollata, di attore. Il sogno di calcare scene prestigiose si era diluito in una mo desta carriera da dilettante. E meno male che la pièce teatrale messa in piedi gli aveva dato l’idea per sbarcare il lunario. Spacciare coca. Se ne vergognava, ma a quarant’anni non era più tempo di esperi menti e doveva pur vivere.
Arrivato sul pianerottolo di casa intuì che qualcosa non andava. Non fece in tempo a realizzare che la serratura era stata forzata, quando quattro braccia grosse come il ramo di una quercia lo afferrarono e lo costrinsero a entrare e a sedersi sul divano in salotto.
Lo sguardo di Lamberto, si chiamava come il suo personaggio, ruotò verso destra fino ad abbracciare le foto di famiglia dove cinque generazioni, insieme a un altro se stesso stranamente sorridente, lo fissavano senza vederlo.
«Lo sai perché siamo qui, vero?» Lo sapeva. Aveva sottratto un chilo di cocaina, circa 100.000 euro, per ricominciare da un’altra parte.
Sentì un dolore fortissimo al torace e abbassando la testa vide il manico del coltello a serramanico che usciva dal corpo all’altezza dello stomaco, accompagnato da una quantità impressionante di sangue.
Gli restava ancora del tempo, poco, mentre la figura del suo assassino si andava sfuocando. Non aveva paura, stranamente, e l’ultimo pensiero fu per il regista della commedia.
«Te l’avevo detto di usare coltelli finti, di plastica.»
di Mauro Angelo Gallotti
Nell’elenco dei rischi, Giacomo non aveva considerato quello di rimanere bloccato nella bussola blindata, e adesso non sapeva che fare, consapevole che gli rimanevano solo pochissimi minuti per tirarsi fuori da quella bruttissima situazione prima che arrivassero le forze dell’ordine. Quella specie di sarcofago stretto e trasparente, che conteneva al massimo una persona per volta, generava una claustrofobica disperazione che rappresentava non tanto il sintomo di un disagio contingente, quanto la raffigurazione del fallimento di un’intera vita. Stefano se li era trovati davanti senza accorgersi del loro ingresso nella filiale, preso com’era dal servire i clienti in coda. Stava contando le banconote comprese in un versamento, quando un uomo mascherato si era avvicinato al suo sportello. «Butta tutti i soldi qui dentro» gli intimò, nervosissimo, puntandogli una pistola contro. Certamente una scacciacani, visto che il metal detector era rimasto silente, ma non era intenzione di Stefano verificarlo con atti di eroismo non richiesti e inappropriati. I rapinatori erano quattro, e indossavano larghe e anonime tute da lavoro blu e calzamaglie scure che lasciavano liberi solo gli occhi. Uno di essi si era fermato all’ingresso, a controllare la situazione e a dirigere il traffico dei clienti entrati dopo di loro, e gli altri tre si stavano occupando delle casse. Non era un buon periodo per Stefano. Suo padre aveva perso il lavoro, e i genitori faticavano a tirare avanti, così si vedeva costretto a mantenerli. I suoi non erano dei fannulloni, e tentavano in tutti i modi di darsi da fare, ma non era facile riciclarsi alla loro età, e faticavano a trovare persino piccoli e saltuari impieghi negli incarichi più umili. Poiché la cosa andava avanti da diversi mesi, la moglie di Stefano cominciava a dare segnali di impazienza e a rimproverarlo per l’eccessiva generosità, accrescendo i motivi di tensione che già non mancavano tra loro, e spingendola a un insopportabile comportamento rancoroso. Dopo aver razziato il denaro disponibile i rapinatori, uno alla volta, uscirono utilizzando l’apposita bussola. I primi tre scivolarono fuori tranquillamente, ma quando fu la volta del quarto a Stefano venne un colpo di genio. Veloce come un centometrista ai blocchi di partenza, si fiondò verso la scrivania alle sue spalle e comandò il blocco delle porte, imprigionando all’interno della cabina antieffrazione il malcapitato ladro. Giacomo adesso sapeva esattamente come si sente un topo in trappola. Iniziò a spingere, a tirare, a colpire il vetro curvo della parete rotante, senza ottenere alcun risultato. Urlò, imprecò, bestemmiò, mentre i suoi complici se la davano a gambe col bottino. Dopo qualche minuto, col suono delle sirene sempre più vicino, Giacomo tentò un ultimo disperato assalto a spallate, per accasciarsi a terra e scoppiare in un pianto irrefrenabile quando i carabinieri giunsero sul posto. Stefano aprì la porta esterna della bussola, e i militari sollevarono Giacomo e gli infilarono le manette. Curiosamente l’uomo poneva resistenza non all’arresto, ma al tentativo di togliergli la calzamaglia. Impiegati e clienti, ancora pallidi per la paura e il pericolo scampato, circondarono il gruppetto. Giacomo smise di dimenarsi, e uno dei militari riuscì a scoprirgli il viso. Stefano non credeva ai propri occhi. «Papà!» esclamò. Giacomo piegò la testa, in preda alla più grande umiliazione di tutta la sua vita. «Scusami. Ho solo tentato di raddrizzare le cose» disse. «Scusami tu, papà» fece eco Stefano che, senza aggiungere altro, tornò alla sua scrivania.
LA FOLLIA
di Mauro Angelo Gallotti
La porta blindata è ben chiusa, ma la controllo più volte, e alla fine infilo persino un piccolo quadro tra la piastra di ancoraggio e l’impugnatura della maniglia.
Lo faccio ogni sera. Se qualcuno tentasse di entrare farebbe cadere il vetro che, frantumandosi, mi sveglierebbe.
La paura mi impedisce di tracciare un confine chiaro tra la razionalità e l’ossessione compulsiva. Lo so, esagero, ma non posso farci niente. Sono quello che sono, e forse non ho neppure tutti i torti.
L’appartamento è grande, e ispezionarlo tutto prima di coricarmi è una fatica che richiede un notevole dispendio di energie emotive. Col tempo ho elaborato strategie e metodi che rasentano la perfezione.
Vivo al quinto piano, non ci sono balconi o terrazzini, e neppure tubi di scarico su cui potersi arrampicare, ma per ulteriore sicurezza tutte le finestre sono allarmate. Basta appoggiare la mano che parte una sirena in grado di far sobbalzare non solo i vicini, ma addirittura l’intero quartiere. È già successo una volta, anni fa, quando un corvaccio, forse disorientato dalla nebbia o dagli impulsi delle antenne del 5G, si è schiantato contro il vetro della cucina.
Sono certa che si trattasse di un corvo perché casualmente ero proprio lì in quel momento a osservare, nella foschia, i contorni incerti del mondo circostante.
Mi sono spaventata tantissimo e, a occhio e croce, per lui è stato peggio. Sono certa di aver visto il terrore nel suo sguardo quando in pieno volo si è trovato a mezzo metro dalla mia faccia. La differenza è che io ero dentro, blindata e al sicuro, lui ha perso i sensi quando ha sbattuto, per poi avvitarsi e sfracellarsi al suolo.
Dopo aver sistemato la porta d’ingresso passo al controllo dei locali.
Facile con la cucina e il salone, dove non ci sono angoli abbastanza larghi e bui da nascondere un uomo in agguato, neppure uno molto piccolo, neppure un nano.
Nel bagno mi inquieta l’idea di controllare dentro la doccia, e anche la camera degli ospiti presenta qualche criticità, nello spazio buio tra i due letti. Lo ritengo altamente improbabile, ma non si può escludere una presenza acquattata in attesa che tutte le luci si spengano. Ultimo da ispezionare è lo studio e, come tutte le sere, dopo aver controllato sotto e dietro la scrivania, lo sguardo cade sulla sacca da golf.
«Allora, vieni a letto o no?»
La sua voce è una punta di trapano nel cervello. Lo odio. Sono stanca di lui, di tutti questi anni in cui... lasciamo perdere, rivangare non serve a nulla, tranne che a peggiorare il mio stato d’animo già insopportabilmente fragile. La sua domanda, apparentemente innocente, è la goccia che fa traboccare il vaso.
«Arrivo» dico.
Tra le mazze mi sono decisa per il putt. È più corto e maneggevole rispetto agli altri ferri. Il grip è cicciotto, agevole da impugnare e la testa un concentrato pesante di alluminio. Immagino che l’impatto con il cranio di un essere umano, se il colpo viene portato con la giusta dose di forza, non lasci scampo. Sento già un crac come quello di un’anguria colpita da un martello, e mi piace l’idea.
Entro in camera, lui è sul letto, sta leggendo, sento la sua indifferenza, è palpabile.
Speravo in tutta un’altra vita, fatta di passione, senza indifferenza. È successo giusto il contrario, niente passione e tanta indifferenza.
«Il male non è prerogativa di persone da tenere fuori dalla nostra casa» penso mentre alzo il ferro sopra la testa e carico il colpo. Lui mi fissa, ha uno sguardo che mi ricorda quello del corvo. Disorientato e terrorizzato. Sorrido. «Cosa combini?» mi chiede, ma non ha il tempo per altre domande.
@@@@@
L’ATTORE
di Mauro Angelo Gallotti
Quattro braccia nerborute lo afferrarono per le braccia e lo trascinarono di peso mettendolo a sedere sulla più sgangherata delle seggiole di legno sistemate attorno al tavolo.
«Tira fuori la roba» intimò il più aggressivo dei tre assalitori.
«Quale roba?» «E bravo il nostro Lamberto. Negare, negare sempre. Forse ha in mente un piano» aggiunse l’uomo con un’ironia venata di violenza; non vedeva l’ora di colpirlo per farlo parlare.
«Quale piano? Non ho nessun piano, e non ce n’è più di roba. Prendete i soldi che ho in tasca» insistette Lamberto, sperando chissà come di convincerli.
In quel momento il secondo delinquente arrivò trionfante dalla camera da letto, sventolando un panetto di cocaina sigillato sotto vuoto che, visto da lontano, somigliava curiosamente a un sacchetto di riso.
«Ho trovato tutto. Altro che piano. Questo idiota non è stato abba stanza sveglio neppure per nasconderla meglio. E adesso?» domandò a quello che doveva essere il capo.
Senza neppure rispondere quest’ultimo estrasse un coltello a serramanico con una lama di quindici centimetri e lo affondò nel cuore di Lamberto.
Questo era il momento che Lamberto proprio non sopportava. Dopo dodici rappresentazioni della commedia non si era ancora abituato all’idea che l’altro attore brandisse un vero serramanico a pochi centimetri dalla sua faccia e, alla fine della scena, simulasse di infilarglielo nel torace.
Lamberto aveva chiesto più volte al regista di utilizzare finti coltelli, magari di plastica, di quelli che a carnevale e ad Halloween spopolano nelle vetrine delle cartolerie, ma lui non ne voleva sapere.
«Dobbiamo essere il più realistici possibile» gli ripeteva. «Ti pare il caso di andare in scena con dei coltelli da cucina di plastica? Siamo dilettanti, ma non pagliacci.»
Non che Lamberto non si fidasse dei suoi partner, ma insomma, un incidente poteva sempre capitare.
Solo quando il sipario si chiuse e scrosciarono gli applausi si rilassò completamente. Anche questa sera era andata bene, e il calore del pubblico rendeva meno amaro il sapore del fallimento. Perché quello era, un fallito.
Con la moglie scappata con un altro e le figlie che non volevano più saperne di lui, aveva puntato tutto sulla carriera, mai decollata, di attore. Il sogno di calcare scene prestigiose si era diluito in una mo desta carriera da dilettante. E meno male che la pièce teatrale messa in piedi gli aveva dato l’idea per sbarcare il lunario. Spacciare coca. Se ne vergognava, ma a quarant’anni non era più tempo di esperi menti e doveva pur vivere.
Arrivato sul pianerottolo di casa intuì che qualcosa non andava. Non fece in tempo a realizzare che la serratura era stata forzata, quando quattro braccia grosse come il ramo di una quercia lo afferrarono e lo costrinsero a entrare e a sedersi sul divano in salotto.
Lo sguardo di Lamberto, si chiamava come il suo personaggio, ruotò verso destra fino ad abbracciare le foto di famiglia dove cinque generazioni, insieme a un altro se stesso stranamente sorridente, lo fissavano senza vederlo.
«Lo sai perché siamo qui, vero?» Lo sapeva. Aveva sottratto un chilo di cocaina, circa 100.000 euro, per ricominciare da un’altra parte.
Sentì un dolore fortissimo al torace e abbassando la testa vide il manico del coltello a serramanico che usciva dal corpo all’altezza dello stomaco, accompagnato da una quantità impressionante di sangue.
Gli restava ancora del tempo, poco, mentre la figura del suo assassino si andava sfuocando. Non aveva paura, stranamente, e l’ultimo pensiero fu per il regista della commedia.
«Te l’avevo detto di usare coltelli finti, di plastica.»
Mauro Angelo Gallotti è un consulente finanziario in pensione. Sposato, con tre figli e quattro nipoti, è stato giornalista pubblicista nella seconda metà degli anni Settanta, e ha collaborato con i quotidiani La Prealpina di Varese e La Notte di Milano. Ha pubblicato una quarantina di racconti, su diverse testate giornalistiche e in raccolte antologiche. Nel 2017 è uscito Meglio accendere il toscano sottovento, un libro di narrativa autobiografica con Epika Editore; nel 2021, con Tripla E, ha pubblicato L’ingaggio.